DAL CONVEGNO SU VINCENZO RABITO TENUTO ALLA FLINDERS UNIVERSITY DI ADELAIDE
Intervento di Giovanni Rabito
Adelaide 2013
In questo mio intervento, astraendomi per quanto mi e’ possibile dal ruolo interessato di figlio e tenendo conto del tempo a mia disposizione, nel mettere a confronto alcuni estratti dei due memoriali di mio padre (nell’insieme si tratta di quasi 3000 pagine scritte in poco piu’ di un decennio) cerchero’ di esaminare, ovviamente per grandi linee, le modifiche e gli sviluppi intervenuti nel tessuto narrativo col passare dall’una all’altra stesura, azzardando magari qualche generalizzazione che spero possa in qualche modo contribuire a una visione un po’ piu’ chiara e sistematica dello “scrittore” Vincenzo Rabito.
Comincero’ con un episodio storico abbastanza noto, avvenuto ad Ancona durante il cosidetto Biennio Rosso, gli anni cioe’ 1919 e 1920. Mi riferisco alla rivolta dell’Undicesimo Regg. Bersaglieri della caserma Villarey di Ancona, avvenuta nel giugno 1920, e alla susseguente repressione alla quale il soldato Vincenzo Arrabito (vedremo presto il perche’ di questo cambiamento di nome) partecipo’ col suo reggimento 69 fanteria, allora stanziato a Firenze. Per prima cosa bisogna dire che in questo caso, in entrambe le stesure, assistiamo in qualche modo a un travisamento della realta’ storica da parte di mio padre. La memoria insomma in questo, come in tanti altri casi, lo tradisce. Mio padre infatti colloca l’episodio alla fine della sua esperienza militare fiorentina, cioe’ nel 1922, quando mancavano pochi mesi al suo congedo, facendo cosi slittare in avanti la data dell’avvenimento di almeno due anni. La cosa comunque e’ abbastanza spiegabile. Lui infatti non si pone mai il problema dell’esattezza dei suoi dati e delle sue date, non avrebbe saputo comunque ne’ come ne’ dove confrontarli, se non all’interno di quell’unica enciclopedia di cui si trovava in possesso: la sua memoria cioe’; e quanto la memoria tradisca lo sappiamo bene tutti, specie col crescere dell’eta’ e delle esperienze. Questo genere di tradimenti lo ritroviamo quindi piu’ o meno in tutto il suo lavoro. Del resto lui, col procedere della sua esperienza scrittoria, si andava lentamente costruendo una sua impalcatura personale del rapporto memoria- verita’ storica (un po’ come ha fatto con la lingua), una specie di veicolo a suo uso e consumo col quale ripercorrere non solo quello sterminato territorio che era stata la sua vita ma attraversare anche il suo periglioso itinerario lungo la Storia d’Italia del Novecento. Nel caso di Ancona per esempio si puo’ dire che avendo lui passato da militare quasi tre anni a Firenze, dalla fine del 1919 al 1922 (la data esatta del congedo fino ad adesso io stesso non sono riuscito a chiarirmela) in un periodo pergiunta estremamente turbolento, ricco di eventi sia suoi personali, sia pubblici, quale meraviglia se le cose alla fine non si siano mescolate e confuse nella sua mente, come in una specie di gigantesco calderone, e riescano a trovare uno sfogo unitario e completo solo nella specificita’ della sua forma narrativa. Soltanto raccontando a modo suo, insomma, lui riesce a ricordare, e i dettagli storici vengono di conseguenza accomodandosi da se’ a seconda dei bisogni affabulatorii del momento. Cosi fatti e persone e cose s’arricchiscono continuamente di dati e particolari minuziosi che intendono abbellire e completare la scena, anche se assai spesso il ricordo arriva cosi potente e carico di emozione che a stento la scrittura riesce a seguirlo. Cominciamo a confrontare dunque le differenti versioni che lui da dell’episodio di Ancona, nei due dattiloscritti, naturalmente tenendo presente il fatto che quando ha scritto il secondo lui non aveva sottocchio il primo e non poteva quindi ne ispirarvisi ne controllare. La vicenda viene introdotta da una premessa quasi farsesca, e io per ragioni di tempo soltanto questa specie di antefatto mi limitero’ ad esaminare. Si tratta di una di quelle trovate che fanno parte di un vasto repertorio di furbizie e furberie che mio padre usa spesso per dimostrare la sua capacita’ di resistenza alla sfortuna, di tenacia, ed eventualmente di riscatto. Una trovata insomma alla Bertoldo, il contadino arguto del Croce (Giulio Cesare naturalmente) che riesce sempre a cavarsela nelle situazioni piu’ difficili, specie coi potenti , figura che tralaltro mio padre conosceva molto bene perche’ facente parte della tradizione orale del popolo siciliano e del suo folklore, quello raccolto dal Pitre’ insomma, dove Giufa’ fa un po’ da controfigura a Bertoldo e prende il posto di Cacasenno.
Velocemente questo antefatto: nella fureria di Firenze lui riesce in qualche modo a farsi cambiare il cognome da Rabito ad Arabito, in maniera da passare tra i primi quando distribuiscono la cinquina in ordine alfabetico. Questa furberia pero’ gli si rivolta contro quando scelgono I soldati da mandare ad Ancona, che vengono naturalmente presi dalle prime lettere dell’alfabeto. Ecco come descrive la faccenda nell’edizione Einaudi:
“Io aveva una abitutine in tutte li forrarieie di fareme chiamare non con il nome di Rabito, che era il cognome propia, ma mi faceva chiamare Arrabito. E il motivo era questo: che, quanto in compagnia devedevino manciare opure davino la cinquina, prentevino sempre comencianto della A , e io che era della R sempre prenteva all’ultimo. Ma questa volta mi ho trovato frecato… e cosi, l’ordene che venne, non a Ferenze solo, ma per tutte li cita’ vicino Ancona, fu per antarece soldate a compattere in questa citta’ di Ancona. E quinte , queste soldate che ci dovevino antare, li prentevino della prima lettera e fenevino nella lettra della M. Quinte io, per mia mala sfortuna, mi hanno chiamato il primo!”
Nel secondo dattiloscritto invece la stessa storia e’ resa in questo modo:
“Recordo unaltro particolare, che con quella composione di sciopere che cera in tutte li ceta’ ditalia magare il manciare per I soldate cominciava a mancare e quinte se nella ciornata davino li sicarette, davono la pagnotta, sempre chiamavino a littera e cominciavino a darle dalla prima lettera A, e avante che arrivavano alla mia lettera R cia’ il manciare e tutte li cose che ci davino si cominciavino a fenire. Io, che erimo amice con quelle che devedeva questa robba, ci o’ detto: fammillo questo piacere, amme invece di chiamareme con il cognome Rabito, chiamime Arabito, che cosi io venco chiamato daie prime e se devedeno li pere mi posseno tocare li frutte piu’ buone. E davero mi a’ scritto nella carta Arabito Vincenzo, ma poie questa carta resto’ in forraria, che non passareno 5-6 ciorne che questo elenco fu preso e si la’ conzarbato il capitano che comantava il servizio. Recordo che per prentere il manciare lavia intuvenato, che prenteva il manciare daie prima, ma poie uno ciorno con questa messa di cognome Arabito mi sono rovenato… e cosi come si sebbe che adancona li bersagliere si ni erino antate conne I comuniste, dogni cita’ ditalia doveva mantare 300-400 soldate armate come quanto antiammo al fronte, come avesse scopiato unaltra querra. Il mio reggemento 69 ci doveva mantare 400 soldate adancona e quinte anno preso a chiamarle a cominciare dalla lettra A , e cosi io che mi aveva fatto mettere per favore nella prima lettera A sono remasto frecato. Come anno chiamato: Arabito, prentete il focile e avante marcia per la stanzione, che dovemmo prentere il treno per Ancona, io trademe’ diceva che magare che mi voleva dare aiuto per fareme bello, non poteva essere perche’ io era nato per vedire pene e quaie. Che se mi avesse restato con quella lettera R, voldire Rabito, io non avesse stato chiamato per antare adancona e dovette fare pacienza.”
4)
L’impressione piu’ immediata e’ che la prima versione sia piu’ stringata ed essenziale, mentre nella seconda ci troviamo di fronte a una stesura considerevolmente piu’ lunga e particolareggiata. E’ come se lo scrittore precedente avesse deciso di scavare ancora piu’ addentro nel suo mondo, come volesse guardarlo e analizzarlo con la lente d’ingrandimento, a costo magari di farsi prolisso e ripetitivo.
Passando a un’altro episodio troviamo invece tutt’altro comportamento narrativo. Mi riferisco all’episodio durante il quale mio padre, di servizio al carcere delle Murate di Firenze, per farsi bello coi vicini della strada che erano tutti “socialecomuniste”, decide di prendere per il culo un maresciallo della guardia Regia chiamandolo “professore “. Nella prima stesura, riportata quasi per intero nell’edizione Einaudi (pag. 138-40), il fatto e’ raccontato, anche se spesso in maniera confusa, con abbondanza di dialoghi, di personaggi e di luoghi diversi: il corpo di guardia del carcere coi due marescialli, il comando di battaglione col colonnello Valentino, la questura e il tenente della questura etc mentre nella seconda stesura il racconto s’e’ accorciato di parecchio, con la scomparsa di molti dettagli, ma sorprendentemente s’e’ fatto anche piu’ chiaro e scorrevole. Per il nostro scopo basta mettere a confronto I due pezzettini iniziali.
Leggiamo dal testo Einaudi:
…propia davante alla callitta dove io faceva il servizio di sentenella si ha trovato a passare un maresciallo della Reggia Quardia con la sua fidanzata, tanto mafiuso e che si credeva un cenerale, perche’ era a fianco alla sua ragazza. E questo maresciallo (le parole “questo maresciallo” sono state aggiunte dai curatori), sotta li fenestre dei detenute, si ha fermato e cominciavo a fare segnale con le mano, dove io era costretto a direce che qui non si poteva stare. E il maresciallo mi quardavo e forse mi voleva dire: che non lo vedi che sono un maresciallo? E poi che cera la ragazza ci ha parso brutto, e piano piano si n’anto’. E all’altra fenestra , un’altra volta si ha fermato , che io con una resata e una babiata (era tra la luce e il buio, che il sole cia’ era tramontato) ci ho detto: ou! Provessore, vedete ca li’ non zi pole stare! Cosi, a quella parola di smarco, provessore, si ofese maledettamente e parte di corsa , va al colpo di quardia, che cera il maresciallo che comantava queste sentinelle. Cosi, subito subito, viene il maresciallo che comantava a me e mi ha detto: Rabito, smonta, dacie la conzegna a questo e tu viene al corpo di quardia!
Nella Seconda stesura:
“Una sera che io era di servizio ini uno posto di quardia di questo carcire a’ passato uno maresciallo della Reggia Quardia con una donna che poteva essere magare la sua moglie, come poteva essere la sua fedanzata, opure la sua amante. Ma questo cretino maresciallo, perche’ era maresciallo a modo suo e perche’io era uno soldato, si a’ fermato in queste fenestruna del carciro, che per leggie non zi ce poteva fermare. Io subito o’ fatto il mio dovere, ma pero’ per fare ridere a quella famiglia che era vecino al carcire, che erino tutte socialecomuniste, che cera magare qualche bella signorina, mi a’ venuto di direce una parola de spotere, alla vera siciliana, che ci o’ detto: professore si nantasse per subito perche’ altremente ci tiro uno bello cuorpo di fucile! Cosi questo maresciallo si a’ inteso remproverato di me che io era uno soldato, e poie che non laveva chiamato maresciallo, che ci aveva detto professore, si a’ inteso spotuto. E certo che io con quella famiglia ci abiammo messo a ridere e quinte questo maresciallo recordo che si ne’ antato per subito nello comanto del corpo di quardia e ci a’ detto che io era contrario al coverno e magare io era socialecomunista.”
A questo punto il resto della storia nel testo Einaudi s’arricchisce di molti altri dettagli ma s’ingarbuglia anche notevolmente, mentre nella seconda viene trattato assai sbrigativamente, terminando con un rapporto e con una punizione. Stavolta quindi il narratore e’ come se avesse deciso di evitare le complicazioni e volesse andare subito al sodo. In questo modo e’ probabilmente la confusione che cerca di evitare o di combattere, parte anche questo di quel processo di esplorazione e apprendimento del metodo narrativo che e’ innegabile in mio padre col crescere dell’esperienza scrittoria. Rimane tuttavia ferma la volonta’ di analisi che abbiamo gia’ notato nel pezzo di Ancona. Significativa in questo senso, e anche deliziosa a mio parere, la descrizione che riguarda la donna in compagnia dell’uomo. Nella versione Einaudi si tratta semplicemente di:
un maresciallo della Reggia Quardia con la sua fidanzata, tanto mafiuso e che si credeva un cenerale, perche’ era a fianco alla sua ragazza.
Mentre nella seconda stesura diventa:
uno maresciallo della Reggia Quardia con una donna che poteva essere magare la sua moglie, come poteva essere la sua fedanzata, opure la sua amante.
Mi sembra a questo punto di poter dire che ci troviamo di fronte come a un allargamento e un approfondimento analitico dei temi trattati che va di pari passo con una maggiore concisione contenutistica. E si potrebbe anche aggiungere come nella prima stesura la preoccupazione di mio padre sia sopratutto autobiografica, nel senso della ricerca vera e propria del se’: chi sono io, chi sono stato, qualto valgo, cosa di brutto mi e’ successo e cosa di bello; mentre nella seconda prende corpo una maggiore esigenza stilistica e narrativa. E’ come se a questo punto si fosse definitivamente convinto della sua vocazione e delle sue possibilita’ e cercasse di ripulire e di riassestare da un punto di vista a modo suo “letterario” la selvaggia vegetazione della sua memoria. A conferma di questo si guardi per esempio alla moltiplicazione delle locuzioni e delle particelle introduttive e coordinanti. Al monodico “e cosi…” della prima stesura si aggiungono sempre piu’ spesso: e quinte, certo che, e poie, e perdavero, mi recordo un’altro caso particolare… e una quantita’ d’altre varianti. Oppure si guardi alla sempre piu’ evidente tendenza, tipica del romanziere ottocentesco di professione (non si dimentichi il fatto che mio padre aveva letto e aveva una passione per Dumas!), del rivolgersi verso un ipotetico lettore che bisogna saper anche accattivare e sedurre. Ora scrive infatti come se parlasse costantemente con qualcuno. Come e’ evidente in frasi come questa: “Guardate che confusione che avesse soccesso!” o molto piu’ esplicitamente in questo passo:
“Ma chi leggie questo portamemoria dice: ma perche’ questo Vincenzo Rabito doppo fare tante sacrafizie allultimo scalone cascava?”
O addirittura:
“Recordo che io con quello palermitano…aveva 6 mese che non parliammo, perche’ a luie ci faceva schifo io e amme mi faceva schifo luie, una notte per forza ci dovettemo parlare. Edecco che vi lo faccio sapire il motivo di come ci abiammo parlato.”
Sempre piu’ frequentemente compaiono poi affermazioni che, nella sua intenzione, dovrebbero rassicurare il lettore avvalorando la veridicita’ storica delle varie vicende, come ad esempio quando a proposito della battaglia del Piave dice: “io tutte queste fatte li scriveva in un pezzo di quaterno e cerano altre che scrivevano, giornalista etc etc…
Oppure: “Certo che io la mia vita che passava, per non mi la dementecare, ci aveva uno pezzo di quaterno e mi la scriveva” . Nello stesso tempo continua a perfezionare anche l’effetto drammatico delle sue scene, con certi dialoghi che esplodono improvvisi nel bel mezzo di una descrizione o con repentini passaggi dal discorso indiretto a quello diretto e dalla terza persona alla prima persona, magari con immediato ritorno alla terza.
Tutto questo insomma conferma una crescente e ormai consolidata self-confidence del Vincenzo Rabito scrittore che lo porta, come e’ naturale per uno scrittore (tra virgolette) “ di professione”, verso una maggiore capacita’ di distribuzione degli elementi narrativi, con giudizi piu’ circonstanziati e incisivi sulle persone della sua vita (anche storiche, tipo Mussolini o Pertini, per dirne due a caso), insieme a una descrizione piu’ accurata degli eventi, e se possibile piu’ precisa anche nei minimi dettagli: vedi le sue ore di partenze e arrivo per esempio, a piedi o coi treni, con le navi o con quant’altro, e poi le distanze tra i posti, l’esatta paga o l’esatto guadagno d’un certo lavoro, persino l’elenco dei cibi di un determinato pranzo, come in questo passo:
“Cosi per subito abiammo spaiato il carretto e poie preparare 4 callette, spilarle e poie per subito cocinarle, che abiammo fatto una bella costosa manciata con acompagniamento di una bellissima menestrina di zuchine belle tenere tenere e piparone e pipe ardiente e milinciane e ciporle e pomodoro e vino buono della contrada Mortirla. E magare fico cerino e pireciedda, chiamate ciugnitese.”
8)
Lo stile si evolve di pari passo, acquistando in profondita’ quanto perde in spontaneita’, con una mescolanza che si fa sempre piu’ straordinaria, passando repentinamente dal comico, al tragico, al patetico…
O forse molto piu’ semplicemente, e per tutte e due le stesure, dovremmo cominciare a parlare di una stessa primitiva e potente vocazione epica che nella sua volonta’ di descrivere e spiegare tutto l’accaduto, fin nei minimi particolari, si trasforma in ambizione direi quasi Omerica. E questo potrebbe forse anche spiegare la modificazione piu’ o meno conscia di certi fatti, di certi personaggi e della loro interpretazione. “quel bugiardo innocente” insomma, di cui si parla nel Mimesis di Auerbach proprio a proposito di Omero “che mente per dar piacere e con la sua vita saporosa e colorita allieta il lettore e ne cattura la simpatia”
Quindi per mio padre l’attivita’ dello scrivere, oltre ad essere espressione di quella specie di oggettivazione istintiva dell’IO propria di ogni natura artistica, cresce in un certo qual modo su se stessa, sviluppandosi come un organismo vivente, e si fa stile sopratutto allo scopo di comunicare al mondo le proprie scoperte. E comunicarle al meglio possibile, nel modo insomma piu’ piacevole e accattivante. Anche a costo di “arricchire” l’esperienza con i ricami e le giravolte tipiche del romanzesco. Un romanzesco in questo caso del tutto picaro e primitivo, cantastoriesco e teatrale, infarcito dei sentimenti base del popolo siciliano, quali la gelosia, la vendetta, l’invidia, l’odio per il sorpruso dei potenti, ma anche la generosita’ e la solidarieta’, la fratanza, la comparata, l’abbraccio col compaesano etc etc
Il tutto, s’intende, in quella lingua Frankenstein che come il mostro della Shelley sa pero’ diventare viva e a volte persino bella e commovente…
“Una lingua (o una vita forse, non ricordo bene) senza grammatica” l’ha definita qualcuno, plastica e variabile come una massa di creta da modellare e rimodellare continuamente, con vocaboli presi e storpiati dall’italiano giornalistico e televisivo come “Aplavise” (faccio solo pochi esempi) per applausi (mentre altrove si dira’ piu’ sicilianamente: batute di mano), o desalture per disertore, strifoniare per strofinare, echise o Ecose per ex, con
resa differenziata persino all’interno dello stesso paragrafo, come per il verbo “sventolare” nel seguente passo:
“perche’ per forza li socialecomuniste volevino conquestare il monicipio di Ferenze, e invece di fare sventuliare la bantiera trecolore nel barcona del monicipio ci volevino fare sbentolare la bantiera rossa.”
Molte sono le parole riadattate o addirittura inventate di sana pianta, come
stanchetutine per stanchezza, o l’aggettivo fiorosa usato in questo passo:
ragazze che siete del 99, che siete nella fiorosa cioventu’, che si vuole arrollare nellarma daie carabiniere alze la mano!
Per non menzionare l’immensa quantita’ di parole e modi di dire siciliani, piu’ o meno italianizzati, come “convenato o comminato” per combinato, nel senso di essere messo o di trovarsi in un certa situazione, buona o cattiva che sia, “non ti arisegare” per non ti arrischiare, o “levare la composione”, nel senso di togliere dai pasticci, ad es. la madre che a un certo punto gli dice: tu, figlio mio, mi aie livato tanta composione…
E si potrebbe naturalmente continuare all’infinito, perche’ e’ proprio con questo suo lessico inedito e stravagante, e proprio sulle macerie della grammatica, che lo scrittore Rabito riesce a costruire il suo edificio stilistico originalissimo e straordinariamente efficace. Con questo suo a dir poco rozzo strumento, fatto interamente a mano, riesce infatti non solo a descrivere in maniera esauriente gli avvenimenti della sua vita, delineando nel contempo una sua morale e una sua visione del mondo, ma s’avventura addirittura a giudicare gli uomini e gli eventi di quella parte notevolissima di storia italiana che come un fascio enorme di frasche gli e’ capitata sulle spalle e che s’e’ visto costretto volente o nolente a trasportare. Da vecchio lo posa finalmente questo fardello e cosi raccontandolo ci offre, da un punto di vista assolutamente singolare, in concetti sintetici, primitivi si ma lucidissimi, una sorta di canovaccio della storia e della politica Italiana del secolo passato.
Mi piacerebbe a questo proposito mettere a confronto due passi su Mussolini, che evidenziano se possibile ancora di piu’ quanto finora detto riguardo alle linee di sviluppo narrativo dal Primo al secondo Terramatta.
Nel testo Einaudi si dice:
“Poie, recordo che tutte li ciornale portavino che in uno paese della Romagna c’era stato il ciovane ciornaliste Benito Mossoline che antava ciranto, che nei comune invece ci voleva fare mettere la bantiera nera fascista; quinte antava ciranto con I ciovene fasciste e di dove passavino bruciavino tutto e facevino propaganda contra a Matiotte. Quinte, la revolozione era vicino…Poi, una notte a Mosolina l’avevino filiato dove era, e cia’ lo stavino prentento per ammazarlo, ma non l’hanno pututo prentere, perche’ grazie al capo stanzione di quello paese, a un certo Farenaccie, che l’ha nascosto dentra il bagagliaio, e non l’hanno pututo prentere, li sociale cumuneste. E poi, Mussoline, quanto fece la revolozione e devento’ capo del coverno, per recompenzo l’ha fatto menistro, a questo capo stanzione che ci ha salvato la vita…”
Nel secondo invece si dice:
“Che poie questo ciovine Benito Mossoline era propia romagniolo, dove nellemilia e Romagnia nascino tutte li sciopere. E questo Benito Mussoline aveva fatto magare la querra con il crado di caporale maggiore deie bersagliere, che forse che magare era stato nelle bataglione di asalto delle delinquente che avevino uscito del carcire apositamente per antare volintarie, infatte il partito che a’ formato luie era chiamato Partito Fascista di compattemento, che laveva fontato a Milano in Piazza chiamata Sanzaporchero, e queste ciovine sanzaporcherista la bantiera che portavino era nera come il carbone e nella bantiera cera limacene della muorte, oquale a quelle bantiere che portavino li battagliona della morte quanto sono partite per antare a conquistare Montefiore. E cosi erino queste fasciste sanzaporcherista che comantava questo ciovine chiamato Benito Mossoline, che luie al carcire ci aveva stato perche’ era socialista e ora fu tanto delinquente che si a’ formato uno partito di dilinquente come luie, per antare contra a questo Partito Socialista che ci aveva militate magare luie e ora laveva tradito, a questo Partito Socialista che era comantato dellonorevole Matiotte”
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Quanto piu’ chiaro e incisivo si va via via facendo il giudizio sul personaggio che aveva dominato il panorama pubblico del ventennio centrale dell’uomo Rabito e come la narrazione tende nello stesso tempo a diventare piu’ circonstanziata e in definitiva meno confusa!
Di pari passo con l’allargamento e il perfezionamento di queste certamente rozze ma tuttaltro che ingenue considerazioni su Mussolini, sempre piu’ incisivi e precisi si fanno via via nel secondo Terramatta I giudizi sulle sue attivita’ di statista e sul Fascismo in generale. Si consideri per esempio questo passo sulla Guerra d’Etiopia, sul quale difficilmente uno storico di professione potrebbe trovare qualcosa da ridire.
“Poie che erino ciornate che litalia stava per antare a conquestare limpero atiopio e al nostro cretino Re lo dovevino fare imperatore. Cosi faceva quello spostato di Mossoline, che per forza doveva prentere limpero abisinio senza il permesso della Mereca e senza permesso delle crante nazione come linchiliterra e la Francia e la Russia. Che litalia per antare a conquestare questo malidetto Impero, questo spostato che comantava ci a’ portato a tutte litaliane alla limosena”
Le differenze tra il primo e il secondo Terramatta sembrano quindi considerevoli, eppure a guardar meglio si ha l’impressione di rimanere sempre li, “ciranto, ciranto” direbbe mio padre, sempre a vagare nello stesso labirinto, alla ricerca continua d’una nuova storia da raccontare, d’una verita’ definitiva da trovare, e sopratutto sempre alla caccia, spesso in maniera convulsa, della forma piu’ seducente. Per lo scrittore Rabito quindi alla fine si e’ quasi costretti a tirare in ballo la parola “Sperimentalismo”, e per entrambe le stesure del suo memoriale, certamente non uno sperimentalismo moderno, studiato a tavolino, ma raggiunto attraverso il tenta e ritenta, del genere insomma dell’uccello che impara a volare. Che se il sogno dello sperimentalismo in ogni tempo, attraverso le aberrazioni piu’ o meno studiate della forma, e’ quello dopotutto di raggiungere comunque il Realismo, bisogna riconoscere che mio padre questo obiettivo l’ha centrato in pieno. Chi potrebbe infatti negare a Terramatta l’appellativo di Realista, con quella sua impressionante rappresentazione dal vero non solo d’una personale realta’ di vita ma forse addirittura della storia di un intero paese.
Certo fa riflettere la constatazione che al giorno d’oggi, nell’epoca del cinema e delle infinite riproduzioni multimediali, la scrittura sembra aver bisogno quasi di tornare al balbettio della sua infanzia per farsi arte e riuscire veramente a stupire ed emozionare il lettore, come riesce a fare nel caso di mio padre. Lo stesso puo’ dirsi della pittura o della musica. Non sono forse gli aborigeni australiani ad essere ormai considerati tra i piu’ grandi pittori contemporanei? E il successo degli artisti del jazz o della canzone popolare? Insomma lo stile spontaneo e imperfetto degli antichi aedi, dei cantastorie, dei menestrelli e trovatori mediovali, o dei pittori di caverne, sembra il solo capace oggi di regalarci ancora emozioni che le moderne tecnologie molto raramente riescono a darci!
Torniamo comunque per Terramatta sulla falsariga dello Sperimentalismo. Non creatura dunque d’uno scrittore colto che come dipintore di vita offre al lettore una sua tecnica gia’ consolidata e una meditata visione del mondo, ma opera sperimentale d’uno scrittore che nell’inseguire la sua memoria e i suoi ricordi di vita si fa cercatore, inventore del suo stile e in qualche modo esploratore del problema stesso dello scrivere e dei suoi molteplici significati. In questo senso allora mio padre sarebbe davvero l’ultimo autentico scrittore, l’ultimo cioe’ (e paradossalmente in virtu’ proprio della sua obbligata partenza da “inafabeto”) a trattare la scrittura come un Universo infinito e totalizzante. Uno scrittore sperimentale quindi e assoluto nello stesso tempo, non solo nella forma ma anche nel contenuto. Quante volte nel secondo Terramatta, che lui ormai chiama ostentatamente “questo libiro di portamemoria, dove mi a’ piaciuto di scrivire tutta la mia vita passata”, con l’accumulazione di sempre piu’ particolari e sempre piu’ approfondimenti delle sue esperienze, si lancia alla ricerca di nuove prospettive, nuove espressioni, nuovi giudizi, per arrivare non solo a una piu’ appropriata conoscenza di Rabito uomo e della sua vita ma sopratutto di Rabito scrittore e del suo valore. Non gli basta piu’ dire, insomma: sono inafabeto, ma quello che dico e’ pura verita’!
Come fa tante volte nella prima stesura. Adesso sembra voglia dire: sono inafabeto, e’ vero, dico sempre la verita’, ma guardate come sono capace a modo mia di abbellirla e di raccontarla questa verita’, con quanti particolari e quante giravolte e quante considerazioni morali, storiche etc etc eh? sono o non sono uno scrittore?!
Mi debbo fermare qui, ma quantomeno questo appellattivo di scrittore alla fine mi sa che a mio padre dovro’ riconoscerglielo anch’io. Su quanto grande sia questo scrittore, non fossaltro che per pudore filiale, non mi azzardo naturalmente a pronunciarmi.
Una piccola nota finale: Per ragioni di omogeneita’ le citazioni dal secondo Terramatta sono tratte da una mia trascrizione del testo originale del tutto simile a quella dell’edizione Einaudi, cioe’: fedelta’ il piu’ possibile assoluta alla lingua Rabitesca, pur nella riduzione del materiale e nella modifica di alcuni elementi marginali quali la punteggiatura, la correzione di qualche errore di battitura a macchina o l’aggiunta di qualche parola dimenticata involontariamente da mio padre, ma essenziale per la comprensione del testo.