FONTANAZZA e la scrittura popolare in Sicilia
Scritto dal Prof. Giovanni Ruffino e Prof. Luisa Amenta
Il caso Rabito è un caso serio e impegnativo anche per il suo interesse linguistico-dialettologico.
Cercherò di dirne brevemente le ragioni.
Ebbi il privilegio di avere il testo integrale di Fontanazza subito dopo il conferimento del premio.
Devo questo privilegio alla cortesia della Fondazione Archivio diaristico nazionale Pieve S. Stefano, e in particolare a Luca Ricci. Era l’anno 2000, e quel testo, nella sua stesura integrale, mi catturò per la sua potenza narrativa, oltre che per la qualità della lingua e per l’inarrestabile impeto scrittorio.
Considerai ben presto la possibilità, e quasi il dovere, di avviare un percorso che potesse condurre a un’edizione di impianto filologico-linguistico. Il percorso si presentava irto di difficoltà data la complessità e la mole del testo. Lo affidai a Luisa Amenta, una giovane mia allieva, ora valorosa collega e docente di Linguistica italiana nella mia Facoltà di Lettere, a Palermo. Furono prodotte alcune buone tesi di laurea su Fontanazza, e la stessa Luisa Amenta pubblicò un paio di saggi sulla lingua di Rabito, uno dei quali nella più importante rivista italiana di studi dialettologici, la RID – “Rivista Italiana di Dialettologia”. Seppi poi della imminente pubblicazione del testo di Rabito da parte di Einaudi, sicché allentammo il nostro impegno in attesa della pubblicazione. Ricordo anche di un mio viaggio a Chiaromonte Gulfi, dove ebbi il piacere di incontrare Gaetano Rabito, figlio di Vincenzo. Proprio da lui seppi dell’iniziativa editoriale. Questa la stringata premessa. Vorrei soltanto accennare ad ora alcune questioni più di merito:
- Come può definirsi il tipo di scrittura di Vincenzo Rabito all’interno della variata storia linguistica italiana?
- Quale posto occupa il testo di Rabito nel quadro delle scritture consimili apparse in Sicilia?
- Come va valutata la storia esterna e successiva: il premio, l’operazione editoriale e la sua fortuna, sino a questo importante convegno?
Prima questione: nel titolo di questo mio intervento si parla di “italiano popolare”. In realtà i linguisti italiani (me compreso) alternano le formule «italiano popolare» (come varietà di italiano imperfettamente acquisito da chi ha come madrelingua il dialetto), e «italiano dei semicolti». Ma al di là delle formule, ancor oggi si dibatte con persistenti margini di incertezza su due questioni: a) Se questa varietà di italiano sia sovraregionale, possedendo caratteri unitari (De Mauro parlò di “italiano popolare unitario”), o se non sia piuttosto preferibile parlare di italiani popolari come insieme di varianti geografiche oltre che sociali;
b) Se la denominazione “italiano popolare” (o dei semicolti, come oggi più frequentemente si definisce) sia da attribuire ai soli testi scritti, e non, dunque, anche alle produzioni orali.
Questa seconda tesi nega che alla base dei testi semicolti – come quello di Rabito – vi sia soltanto il dialetto locale; c’è sicuramente – si osserva – la consuetudine dialettale, ma unita ala tratto della “oralità”, che è indipendente dal sostrato dialettale e accomuna scritture semicolte di località che non hanno nulla in comune sul piano dialettale. L’oralità, semmai, si trascina dietro l’italiano colloquiale e anche il dialetto, ma non riesce a tradursi compiutamente e correttamente sulla carta. Ciò perchè, partendo da una condizione di diglossia (dialetto e lingua), vi sovrappone la forma scritta (e dunque normalizzata) della lingua da parte di chi non sa scrivere secondo la norma; ma anche perchè, nel passaggio dalla oralità alla scrittura, vengono meno i tratti extralinguistici della comunicazione (mimica, prossemica, toni, pause discorsive). Inoltre, l’autore dei testi scritti semicolti, diversamente da quando si esprime oralmente, è indotto a convogliare nella sua scrittura – con scopi anche nobilitanti – elementi appartenenti alla tradizione dell’italiano letterario: espressioni, lessico, formule idiomatiche, sinanco aulicismi introdotti dall’italiano scolastico pur precocemente abbandonato.
Questo ragionamento ridefinisce la formula dell’“italiano popolare unitario”, in quanto, pur ammettendo l’evidente presenza dell’elemento dialettale e locale, non è questo (non è soltanto questo) il requisito che conferisce ai testi semicolti la loro specifica fisionomia.
E veniamo alla seconda questione: quale posto occupa il testo di Rabito nel quadro della scrittura popolare in Sicilia.
L’italiano popolare – o italiano dei semicolti – è nella sua forma scritta una costante della storia linguistica italiana. La sua espansione nel Novecento, a partire dalle lettere di soldati pubblicate da Spitzer negli Anni Venti, è determinata soprattutto dall’incremento della frequenza scolastica, con conseguente crescita del semianalfabetismo (ma cresce gradualmente l’interesse dell’industria editoriale, sollecitata anche dall’attenzione dei linguisti).
In questo contesto, la Sicilia presenta una produzione limitata ma significativa. Mi sono cimentato a ricostruire un quadro variamente articolato, che vi propongo. Noi disponiamo delle seguenti tipologie di testi semicolti:
1. Testi d’archivio di varia epoca (ricevute, relazioni, lettere, testamenti).
Può essere citata la raccolta di testi e documenti settecenteschi di area siciliana sud-orientale (il Principato di Biscari), pubblicati in Antonia G. Mocciaro, Italiano e siciliano nelle scritture di semicolti, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo 1991.
2. Memorialistica e diarisitica.
In questo ambito rientra, ovviamente, il testo di Tommaso Bordonaro. Va poi ricordato innanzi tutto il grande libro di Vincenzo Rabito, Terra matta, Einaudi 2007 (riduzione riveduta di un ben più ampio testo di un cantoniere di Chiaramonte Gulfi). Un altro interessante esempio è costituito dal Diario di un deportato (Gelka, Palermo 1990), scritto da un contadino di Giarre nato nel 1918. Il libro ha una postfazione di S. C. Sgroi, nella quale si puntualizzano i tratti della scrittura popolare. Una testimonianza di straordinario interesse è data anche dal grosso volume di Tommaso Tardino (calzolaio di Licata), La mia guerra. Riflessioni e memorie di guerra, prigionia e altro di un soldato italiano, a cura di Antonino Marrale, Università di Palermo 2001.
3. Storie di vita semiromanzate.
È il caso di Storie selvagge. Corna, assassini e altro dei primi del Novecento, scritti in italiano popolare, a cura di Antonino Marrale, Ed. Novecento, Palermo 1995 (l’autore – pur non dichiarato – è lo stesso Tommaso Tardino già menzionato).
4. Epistolari.
È il settore forse più ricco di testimonianze. Proprio mentre si svolgono i lavori di questo convegno – tanto per citare un caso recentissimo – il quotidiano “La Repubblica” riporta dieci lettere degli anni Cinquanta e Sessanta, inviate da contadini siciliani ai dirigenti dell’Ente di Sviluppo Agricolo, che durante la riforma agraria amministrava i terreni strappati ai latifondisti e destinati ai coltivatori diretti. Ma non si possono non ricordare le Lettere dei deportati della Terra pubblicate da Antonio Castelli (ora in A. Castelli, Opere, a cura di G. Saja, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta- Roma 2008).
Più antichi documenti, risalenti agli anni 1916- 1917, sono le Lettere dal fronte che Matteo Russo, un fante di Santa Venerina (Ct), analfebata, detta a uno scrivano per la moglie Maria Consoli. I testi, di grande interesse, sono stati pubblicati da C.U.E.C.M. di Catania nel 1993, con una nota linguistica di S. C. Sgroi.
Di particolare interesse, anche per i territori di migrazione da cui provengono, sono le 37 lettere inviate a una amica da una donna originaria di Modica ed emigrata a Brooklyn, tra il 1950 e il 1953. Il corpus è stato pubblicato da Elvira Assenza (Credo che sempre America…, E.D.A.S., Messina 2002) con corpose note sociolinguistiche, in cui sono evidenziati i non pochi fenomeni di contatto e una varietà di italiano popolare della metà del secolo scorso.
A questi generi aggiungerei alcune altre tipologie di testi, a partire da quelli della scuola primaria (di grande interesse, anche per le motivazioni ideologiche, oltre che per ragioni linguistiche, sono i testi pubblicati nel mio L’indialetto ha la faccia scura. Giudizi e pregiudizi linguistici dei bambini italiani, Sellerio, Palermo 2007). Ma si tratta di una interlingua di apprendimento adottata da preadolescenti dialettofoni.
Un altro utile riferimento può riguardare le scritture normalizzanti di storie di vita orali, contenute negli straordinari libri di Danilo Dolci, il grande sociologo che operò a Partinico e a Trappeto a partire dalla seconda metà del secolo scorso (Banditi a Partinico, 1955; Inchiesta a Palermo, 1957; Racconti siciliani, 1963; Non esiste il silenzio, 1974).
Menzionerei, infine, alcuni discutibili esperimenti di ricostruzione “a tavolino” di scrittura popolare, che caratterizzano talune opere narrative contemporanee.
Più interessanti (quanto meno, dal nostro punto di vista) mi sembrano le scritture che restituiscono in forma narrativa storie segrete e imbarazzanti (per esempio, Aurelio Grimaldi, Le buttane, Bollati Boringhieri, Torino 1989; Giovanna Nobile, Mi getto ammalato. Racconti di malcostume siciliano, Edizioni della Battaglia, Palermo- Firenze 2000).
In questo non grande ma suggestivo panorama, il testo di Rabito è certamente tra i più importanti, perchè salda ampio respiro narrativo, prospettive storico-sociali, requisiti stilistici e linguistici di grande interesse.
E qui si apre la terza e ultima delle questioni alle quali accennavo all’inizio: cioè la vicenda editoriale e la fortuna del libro.
Mi limito ad una rapida considerazione e a una domanda conclusiva.
L’edizione einaudiana di Rabito è, per quanto parziale, un avento importante e apprezzabilissimo, anche per le discussioni che stimola sul repertorio linguistico italiano, a partire dalle aule universitarie (io stesso ho recentemente tenuto una lezione su Rabito ai miei studenti di linguistica italiana).
Comunque sia, si tratta di un evento prevalentemente circoscritto alle dinamiche e alle esigenze della grande industria editoriale (e forse si spiega in questo contesto la scelta del titolo Terra matta, al quale avrei preferito l’originario Fontanazza).
Rimane dunque in larga misura inesaudito l’interesse dei linguisti per l’edizione integrale, filologica, corredata da una nota linguistica che, per essere soddisfacente, non può trascurare alcun elemento sul piano fono-ortografico, morfosintattico, lessicale e stilistico. Una tale impresa, considerata l’imponenza del testo, è ardua, ma stiamo ancora verificando a Palermo la possibilità di andare avanti, risollecitati dalla notizia clamorosa di una seconda stesura dell’imponente testo. Domanda conclusiva: ma è proprio vero – come si dice nella nota dei curatori – che Vincenzo Rabito abbia potuto scrivere la sua autobiografia direttamente su una vecchia Olivetti, e che non esista alcun testo precedente o parallelo vergato a mano? Una tale eventualità sarebbe della più grande importanza per noi.
Luisa Amenta
Parole tra punti e virgole: un’analisi della lingua di Rabito
1. Premessa
Con il presente contributo intendo offrire qualche spunto di riflessione sull’opera di Vincenzo Rabito, focalizzando l’attenzione sul piano esclusivamente linguistico e tentando di rispondere ai seguenti interrogativi:
a) quali sono i rapporti tra la lingua di Rabito e le altre scritture di semicolti: esiste una originalità della sua scrittura rispetto al filone di memorialistica popolare? b) di conseguenza, si può effettivamente parlare di un “rabitese”, accogliendo la definizione proposta per la sua lingua da una dei curatori di Terra Matta, Evelina Santangelo, nell’intervista rilasciata a Tano Gullo per la recensione del libro apparsa su La Repubblicadel 15 ottobre 2006? c) quanto di questo “rabitese” è possibile scorgere nell’edizione della sua autobiografia? In sostanza, relativamente agli usi linguistici di Rabito, la lingua di “Fontanazza” è stata fedelmente tràdita alla stampa, e dunque consegnata al grande pubblico nella forma di Terra matta,o è stata tradìta, pur se questo ha reso possibile che l’opera di Rabito sia oggi conosciuta e apprezzata non solo dai giurati del Premio “Pieve- Banca Toscana” e da pochi altri lettori.
Per poter affrontare le questioni in questa prospettiva è necessario innanzitutto scindere, per quanto possibile, da una parte l’indiscutibile valore documentario dell’opera e l’abilità di Rabito come narratore dalle sue competenze linguistiche, ossia separare l’io narrante che emerge dalle sue pagine e invade e cattura chi legge dall’io scrivente. È indubbio, infatti che la magia che trasmette la scrittura di Rabito trascina il lettore e rischia di non far cogliere più le analogie tra la lingua di Rabito e quella di altri autori che vengono definiti “semicolti” (cfr. Bruni, 1984).
Circa il valore storico- documentario dello scritto sono illuminanti le parole della giuria del Premio che sottolineano come “Rabito si arrampica sulla scrittura di sé per quasi tutto il Novecento, litigando con la storia d’Italia e con la macchina da scrivere, ma disegnando un affresco della sua Sicilia così denso da poter essere paragonato a un Gattopardo popolare”.
Il lunghissimo percorso della memoria in cui si snoda il suo racconto è un’indubbia testimonianza della storia vista dalla prospettiva di chi, proprio per essersi trovato di fronte alle avversità della vita, sa come vanno le vicende umane e può permettersi di giudicare gli eventi con quel disincanto e quell’ironia che conferiscono alla narrazione un particolarissimo taglio tragicomico.
Indubbiamente Rabito è un abilissimo narratore proprio per la verve con cui inanella uno dietro l’altro gli episodi della sua vita, descrivendo minuziosamente i luoghi, come quella piazzola a dodici chilometri da Chiaramonte in cui si trova la fontana, fondanella o fontanazza, più volte menzionata nel testo che dà il titolo al dattiloscritto originale, e le persone, uomini e donne incontrate per una sera o amici di una vita, con cui condivide ricordi e privazioni. Le tante esperienze lo fanno essere particolarmente caustico nelle descrizioni non solo esteriori degli altri personaggi del racconto ma anche dei loro aspetti caratteriali e psicologici. Queste sue inconsapevoli doti di narratore danno luogo alla sua scrittura bulimica che per 1027 pagine cattura il lettore.
Come afferma Antonelli (2007), nella sua acuta recensione al libro Terra matta, “Rabito non è uno scrittore, ma è un grande narratore, e della narrazione orale possiede con sicurezza tempi e modi: il gusto del particolare, la sapiente mescolanza di eventi tragici e risvolti comici, l’enfasi patetica e la battuta salace. L’aria di epica popolare che si respira nel suo racconto nasce dal ricorrere di situazioni e immagini formulari, dalla frequenza di proverbi e modi di dire, dai gesti sempre teatrali e dalle reazioni polarizzate tra pianto e bestemmia, tra inferno e paradiso (“quanto era all’Africa, che erimo all’inferno … e ora, a Francofonte, io era imparadiso”). Altro che ingenuità: l’inaffabeto Rabito avrà pur preso la licenza elementare “a 30 anne, senza antare alla scuola”, ma ha letto i suoi testi canonici (“il libro dell’Opera dei pupe … e il libro del Querino il Meschino”) e soprattutto ha raccontato e sentito raccontare per notti intere storie che – come questa – ruotavano intorno al cibo, al sesso e ai soldi. Nella sua lunga autobiografia cambiano spesso gli scenari, ma i meccanismi narrativi si ripetono con costanza: Vincenzo soffre la fame per poi abbandonarsi a pantagrueliche scorpacciate, si arricriacon le donne (poi finisce col maledirle), in un modo o nell’altro riesce ogni volta a mettere da parte un bel gruzzoletto”.
Questo stile narrativo che ricalca l’oralità emerge con chiarezza dalla sua scrittura, come nota nel suo commento pubblicato tra le recensioni sul sito dell’Indice dei libri del mese una lettrice di Terra matta: “Man mano che andavo avanti nella lettura, sono stata conquistata dal “cunto” di Rabito e dal suo linguaggio che suona, a me siciliana, tanto reale e tanto familiare. Sembra di ascoltare la lenta narrazione di un cantastorie (Daniela)”
D’altra parte una scrittura che si fonda e si impregna di oralità è il tratto caratteristico di tutte le produzioni dei semicolti, per cui in tal senso è imprescindibile esaminare quali sono i rapporti tra la lingua di Rabito e quella che emerge dalle altre scritture dei semicolti.
2. Principali caratteristiche della lingua di Rabito
Già dal genere testuale prescelto, il diario, l’opera di Rabito può essere a pieno titolo inserita tra le produzioni scrittorie di quelli che Bruni (1978; 1984) ha definito come “semicolti”, persone che pur avendo cominciato un loro percorso di scolarizzazione, l’hanno interrotto prematuramente e dunque non hanno potuto acquisire quella necessaria dimestichezza con la lingua, in particolare scritta, che potesse permettere loro di non rimanere vincolati al proprio dialetto o a forme e stilemi di una oralità che pervade la scrittura.
Ad una prima lettura del dattiloscritto emerge subito la caratteristica più evidente della scrittura di Rabito, ossia l’uso personalissimo della punteggiatura.
L’uso approssimativo della punteggiatura è un tratto comune alle scritture dei semicolti che, in preda alle incertezze normative, ne riducono al minimo i segni o ne abusano. Rabito appartiene a questa seconda categoria. Il segno di interpunzione che ricorre più frequentemente nel suo testo è il punto e virgola che separa o singoli lessemi o gruppi sintagmatici composti da articolo e nome, talvolta univerbati, o da pronome e verbo. Questa sovrabbondanza di segni interpuntori, cifra caratteristica delle sue 1027 pagine dattiloscritte, è anche ciò che rende più ardua la lettura in una sorta di slalom tra parole e punti e virgola.
Risulta difficile ricostruire il criterio che ha guidato Rabito. Se da una parte, infatti, la tendenza sembra quella di unificare ciò che forma un’unica catena fonica, come nel caso della successione cognome – nome, dall’altra la separazione dell’ausiliare e del participio passato che formano un unico sintagma verbale, o della parola sottoscritto, contraddice questa ipotesi. Ciò che appare evidente è che non viene rispettato in alcun modo un criterio di tipo sintattico.
Sporadicamente al punto e virgola si sostituisce l’uso dei due punti, forse dovuto alla vicinanza dei due tasti nella macchina da scrivere.
Secondo Romanello (1978: 84) l’uso della punteggiatura nelle scritture dei semicolti non ha alcun valore funzionale da un punto di vista sintattico, né tanto meno normativo, ma ricorre per conferire un certo prestigio al proprio scritto.
La spiegazione data in un’intervista dal figlio Giovanni circa l’uso del punto e virgola nella scrittura del padre sembra avvalorare questa ipotesi: “per convincersi che con la macchina da scrivere stava facendo a modo suo una cosa letteraria, e avendo della letteratura l’idea che la letteratura sia soprattutto ortografia, sigillava ogni parola con il punto e virgola, che oltretutto è bello. […] Credo proprio che per lui il punto e virgola fosse qualcosa di più, qualcosa che riuscisse a trasformare la sua cultura orale in una scrittura simile ai pochi giornali e libri letti”.1
Per quanto riguarda gli altri segni di interpunzione si segnalano l’uso del punto e del punto interrogativo dopo un numero. In particolare il punto interrogativo segue numeri che indicano orari o quantità, anche se nell’ambito di una pagina quelle stesse indicazioni ricorrono seguite dal punto, ancora una volta, allo stato attuale, impedendo di trovare un criterio univoco nella scelta dell’uno o dell’altro segno interpuntorio.
Nelle scritture dei semicolti, così come nel testo in esame, il punto interrogativo ricorre al posto di quello esclamativo allorché gli enunciati abbiano una sfumatura esclamativa .Tuttavia, l’uso del punto esclamativo e del punto interrogativo rimane escluso dai contesti in cui, al contrario, sarebbe appropriato così come i due punti non ricorrono mai per segnalare l’inserzione di un discorso diretto che segue immediatamente un verbo dicendi. Il passaggio dal discorso indiretto al discorso diretto non viene mai segnalato e quest’ultimo irrompe nella narrazione con la stessa urgenza con cui Rabito ha voglia di raccontare la sua storia.
L’uso della punteggiatura in Rabito diventa dunque emblematico della forza espressiva di questa scrittura che è qualcosa che sovrasta e supera qualsiasi ricerca di criterio.
Ancora, una delle più vistose caratteristiche grafiche del testo di Rabito è l’omissione di qualsiasi segno paragrafematico, sia esso accento o apostrofo. Nel testo, infatti, ricorrono costantemente avverbi e congiunzioni privi di accento: piu (r. 7; 8; 34; 91 etc.), cosi (r. 16; 17; 21; 37; 47; 84; 98 etc.), perche (r. 18; 19; 32; 41; 43, etc.). La stessa assenza di accenti si osserva nelle parole ossitone mintalita (r. 25) e proprieta (r. 68) e nella terza persona del verbo essere (r. 1) che compare senza accento anche nella forma paragogica ene (r. 81). L’omissione di segni paragrafematici potrebbe essere imputabile alla tendenza alla semplificazione, propria della lingua popolare, per cui dal punto di vista comunicativo il lessema risulta significativo anche senza informazioni di tipo paragrafematico.
Alcune devianze derivano invece dalla mancata interiorizzazione di norme grafiche dell’italiano e riguardano, ad esempio, la totale assenza di lettere maiuscole per i nomi propri, i toponimi o in altri casi previsti dall’italiano: rabito vincenzo (r. 1), chiaramonte (r. 2), siraqusa (r. 2). A proposito dei nomi propri, va notata anche la successione cognome /nome tipica del formulario burocratico di cui risente la lingua popolare. Con la volontà di riproporre stilemi propri della lingua burocratica per conferire maggiore dignità al suo scritto, si giustificano anche scelte del tipo figlio di fu salvatore, classe 31 marzo 1899.
Particolarmente frequente è l’omissione della h in alcune forme dell’au-siliare avere. In proposito si osserva che, mentre l’h ricorre nell’ausiliare di prima persona singolare ho fatto (r. 1), è omessa nella forma della terza persona sia singolare (a detto: r. 74), che plurale (anno fatto: r. 69), (anno messo: r. 72), forse per l’analogia formale dell’ausiliare con la preposizione nel primo caso e con il sostantivo nel secondo.
Sempre dalla scarsa dimestichezza con le regole dell’italiano dipendono incertezze nella resa dell’occlusiva velare sorda /k/ come avviene in siraqusa (r. 2), qurriere (r. 3), pascua (r. 99) forse dovuta alla presenza non funzionale in italiano di due allografi (c e q)per lo stesso fonema. Nel nostro testo l’incertezza grafica coinvolge anche la resa della occlusiva velare sonora /g/, probabilmente sulla base di spinte ipercorrettive: qulfe (r. 2), ciovanni (r. 9), quida (r. 53), quadagnare (r. 83), crante (r. 90). Anche altre devianze grafiche sono spiegabili alla luce di fenomeni di interferenza della pronuncia dialettale. A ciò si deve, ad esempio, la trascrizione con assordimento delle consonanti sonore postnasali dei nessi –ng- e -nd-: manciammo (r. 76), antare (r. 21), bestemianto (r. 41), comantava (r. 54) e la affricazione di –ns in nz: penzare (r. 7).
Anche nella resa del vocalismo è possibile ravvisare fenomeni di condizionamento del sostrato dialettale. Ciò avviene nel passaggio della e atona ad i: mintalita (r. 25).
Differentemente a ipercorrettismo o a incertezza articolatoria si potrebbe imputare la sostituzione di i e u atone con e ed o in nomirosa (r. 9), desonesto (r. 45), dorante (r. 64), fortonate (r. 78).2 Allo stesso modo, sempre l’ipercorrettismo sembra portare l’autore a sostituire con e la vocale finale atona i,avvertita come propria del dialetto, in solde (r. 11), quinte (r. 11), avante (r. 21), anne (r. 22), a piede (r. 62).
D’altra parte, l’uso dei digrammi e dei trigrammi segue per lo più la norma. Ad esempio, la palatale laterale è resa correttamente con il trigramma gli in travagliata (r. 5), figlie (r. 8), famiglia (r. 10), racoglieva (r. 105) e solo occasionalmente viene omessa la i diacritica in figle (r. 13).
L’uso del digramma ch ricorre correttamente in alcuni casi, ad esempio nel toponimo chiaramonte (r. 2; 32), mentre in altri viene esteso anche laddove non necessario. Così chiavola al posto di ciavola, è verosimilmente ipercorrettismo dovuto alla pronuncia pienamente palatale (ciavi per chiavi), propria della Sicilia sud-orientale.Il digramma ch viene esteso anche in chilasse (r. 3) per classe, in cui ricorre anche una i epentetica al fine di evitare il nesso cl estraneo alle abitudini dialettali.
Un’ultima considerazione riguarda la resa del nome proprio dell’autoreche ricorre ora correttamente con nasale preconsonantica vincenzo (r. 1; 34; 38; 39; 80), ora senza, in conformità con la pronuncia dialettale: vicienzo (r. 80). In proposito è da osservare che la forma senza nasale preconsonantica si trova in una inserzione di discorso diretto. Tuttavia per le altre parole che presentano una nasale preconsonantica la grafia nel testo di Rabito è corretta.
Il confine grafico di parola rimane uno dei punti più controversi per il semicolto che si avvicina alla scrittura. Il caso più frequente è senz’altro l’agglutinazione della preposizione a al nome o all’infinito che la segue, secondo un procedimento di raddoppiamento fonosintattico comune agli scrittori di italiano popolare centromeridionali: ammanciare (r. 8; 19), allavorare (r. 10; 22; 78). Il fenomeno è esteso anche alla preposizione di + infinito: diantare (r. 29), dicercare (r. 50), dientrare (r. 72).3 Analogamente vengono percepiti come unico continuum fonico e pertanto univerbati il pronome clitico e il verbo, anche in presenza di nessi clitici: miavevino (r. 22), minantava (r. 31), mialzo (r. 61), ciapiaciuto (r. 69), milanno (r. 98), cilavevino (r. 102). In un caso vengono resi con un’unica parola il verbo con il suo complemento oggetto: ebilafortuna (r. 72).
Per quanto riguarda il sintagma articolo + nome, benché non manchino i casi di univerbazione, come ad esempio luva (r. 103), sono molto più frequenti le discrezioni, giacché la parte iniziale della parola viene percepita come articolo e perciò separata: la voro (r. 13; 57; 63). Questo procedimento è esteso anche ai verbi: la mentare (r. 41). In altri casi, secondo quanto osservato già da Mocciaro (1991: 20), gli elementi iniziali delle parole vengono considerati come funzionalmente autonomi, il che comporta parimenti una resa grafica deagglutinata: sotto scritto (r. 1), in vece (r. 15), se conto (r. 16), i nafabeto (r. 49), ne suno (r. 54). In particolare nel testo si segnala notevole incertezza grafica per l’avverbio onestamente, che viene reso in una pluralità di modi anche nello stesso rigo: o nestamente (r. 15), onestamente (r. 15) e onesta amente (r. 28).
Riguardo all’uso dei pronomi, secondo quanto è stato più volte documentato per la scrittura dei semicolti e per l’italiano popolare, ricorre frequentemente la ridondanza pronominale. Come nota Cortelazzo (1972: 84), i parallelismi nell’uso dialettale comportano più facilmente il cumulo che si basa su ragioni di ricerca di una maggiore espressività e, specialmente nel caso dei pronomi di prima persona singolare, su una focalizzazione sull’io narrante: e poi amme mianno detto (r. 69).
Altro fenomeno ampiamente documentato, ad esempio da Cortelazzo (1972: 91), e imputabile a processi di semplificazione del sistema, è l’estensione del pronome di prima persona plurale ci per le forme indirette del pronome di terza persona sia singolare che plurale: quinte le mieie compagne anno fatto quello che ciapiaciuto (r. 69); e io ciodetto [ad un amico del padre] che erino poco (r. 81).
Analogamente anche il paradigma degli aggettivi possessivi viene semplificato con un’estensione della forma della terza persona singolare per il plurale: come tante famiglie che fanno tutte le porcarieie per potere sfamare ai suoi figlie (r. 26-27).
Dato il carattere narrativo del testo autobiografico i tempi che ricorrono più frequentemente sono l’imperfetto, il passato remoto e il passato prossimo.
L’interferenza del dialetto si presenta con regolarità nella terminazione della prima persona singolare dell’imperfetto indicativo in –ava invece che in avo e nella terza persona plurale in –avino invece che –avano per la prima coniugazione, –eva/-evino per la seconda e era per la prima persona dell’imperfetto del verbo essere:
Altri fenomeni della morfologia verbale per cui si risente l’influsso del sostrato dialettale sono la resa del periodo ipotetico dell’irrealtà e la sovraestensione di alcuni modi a scapito di altri. Il periodo ipotetico ricorre con il doppio congiuntivo sia nella protasi che nell’apodosi secondo quanto previsto nel siciliano.
Per quanto riguarda la relazione sintattica di accordo, generalmente nome e aggettivo presentano lo stesso morfema grammaticale. Un caso particolare è rappresentato dall’accordo dell’aggettivo poco.
Benché non manchino i casi di accordo grammaticale correttamente applicato come in quelle poche solde (r. 10-11), in altri casi l’aggettivo poco rimane invariato secondo quanto accade per il siciliano picca. In genere sono frequenti i casi di accordo ad sensum
Altro tratto tipico delle scritture substandard è la costruzione del verbo di percezione con l’oggetto animato marcato da preposizione, secondo il ben noto fenomeno dell’accusativo preposizionale.4 L’accusativo preposizionale è uno dei tratti che connotano in modo più evidente le scritture dei semicolti di area centro meridionale e nel nostro testo ricorre regolarmente come marca segnacaso di oggetti animati.
Anche nell’uso delle preposizioni si segnalano scambi spiegabili alla luce di incertezze nella scelta tra le alternative di un paradigma poco trasparente per gli utenti di italiano popolare (Berruto 1983b: 50). In particolare ciò avviene per le preposizioni di e da. Come notano anche Rossitto (1976: 170) e Mocciaro (1991: 43), lo scambio delle due preposizioni nell’italiano popolare di Sicilia potrebbe dipendere dalla mancanza nel dialetto della preposizione da,per cui si adopera di anche per l’espressione di complementi quali ad esempio quello di agente, di moto da luogo, etc.
Tuttavia, nel testo di Rabito, forse a causa di una scelta di iperdistanziamento dal modello dialettale, la preposizione da ricorre in tutti i contesti in cui in siciliano troveremmo di o dei.
Nel nostro testo la sintassi di frase ricalca moduli del parlato e pertanto ricorrono frequentemente sia dislocazioni a sinistra, sia temi sospesi che frasi scisse. Il tema sospeso, che nel parlato può essere attribuibile a problemi di pianificazione del discorso e a una interruzione e modificazione del progetto sintattico, nelle produzioni popolari, e dunque anche nel nostro testo, va attribuito piuttosto a oggettive difficoltà nella resa dei costrutti e, in particolare, a problemi di accordo tra soggetto e verbo.
La congiunzione che ricorre più frequentemente è il che come pronome relativo anche per i casi indiretti e nella sua funzione generica di introduttore di subordinate. La preferenza accordata all’uso del che relativo indeclinato può dipendere sia da una generale tendenza alla semplificazione del paradigma del pronome relativo, che si registra uniformemente nelle scritture dei semicolti (Berruto, 1983b), sia da un fenomeno di interferenza dialettale dovuta alla presenza nel siciliano esclusivamente di pronomi relativi indeclinati, quali chi e ca. In alcuni casi nello stesso periodo il che ricorre con particolare insistenza, provocando accumuli di frasi introdotte da questa forma.
In molte occorrenze, per l’espressione di subordinate concessive, il che ricorre con altre congiunzioni di derivazione dialettale che vengono italianizzate dall’autore, quali con pure che/compure che, bastica (basta che), anche nella forma basti con omissione del ca, e magare che. In particolare, come nota Rossitto (1976: 171), la congiunzione con pure che è impiegata con particolare frequenza dai parlanti di italiano popolare di Sicilia.
Anche il livello lessicale presenta molte delle caratteristiche di un testo semicolto: una generale povertà lessicale, che si manifesta anche nelle continue ripetizioni degli stessi lessemi, l’impiego di parole di uso quotidiano, la presenza di malapropismi, ad esempio pormenita (r. 14) per polmonite, e una massiccia componente di termini di origine dialettale talora italianizzati, calchi semantici e regionalismi.
Alcuni termini, pur avendo un corrispettivo italiano, ricorrono nel testo nella forma siciliana o per una incapacità dell’autore a renderli in italiano o per una non conoscenza della forma italiana corrispondente, come nel caso di chila (r. 88), buonarma (r. 102). Talvolta, sebbene la forma dialettale ricorra più frequentemente, è presente anche il corrispettivo italiano, come accade per racina (r. 63, 80, 88, 96, 100, 101) e luva (r. 103).
Sono presenti anche tentativi di italianizzazione di alcuni termini che attestano lo sforzo compiuto dall’autore di staccarsi dal dialetto: canciedde (r. 87) per ceste dalla parola siciliana canceddi; maschele (r. 6) per maschi dal siciliano masculi.
Anche la fraseologia ricalca quella siciliana, ad esempio nel caso di cascare malato (r. 94) al posto di ammalarsi. D’altra parte, come è stato osservato anche da Mocciaro (1991: 67), il ricorso a una perifrasi analitica al posto di un unico termine è un procedimento tipico del lessico dei semicolti, ed è dovuto probabilmente alla non conoscenza del singolo lessema corrispondente o, come avviene nel nostro testo, a una maggiore ricerca di espressività, ad esempio nell’uso della perifrasi fare soldei (r. 31) che ricorre nel testo insieme al verbo guadagnare.
Da quanto si qui osservato, per i vari livelli di analisi linguistica, è possibile affermare che il “rabitese” è in prima istanza una particolare declinazione delle scritture dei semicolti di cui condivide sia i punti di contatto di queste scritture con le produzioni del parlato mediamente informale, sia il livello profondo di interferenza dialettale che emerge laddove lingua e dialetto presentano il maggior grado di distanza.
In particolar modo ciò si verifica nelle scelte grafiche per cui la non conoscenza del complesso sistema normativo della lingua codificata comporta continue incertezze per l’autore soprattutto nella resa del sistema fonetico dell’italiano regionale di Sicilia.
Inoltre a un livello morfosintattico, dove non sempre è possibile una sovrapponibilità del sistema dialettale e di quello italiano, va notato come, a seguito di una ricerca di “letterarietà” per il proprio testo, il nostro autore si spinga verso scelte morfologiche e sintattiche anche complesse, come avviene nell’uso di un periodare con subordinate, che lo portano a non poche interferenze nell’uso dei modi verbali e delle congiunzioni.
Ovviamente il fatto che il “rabitese” non sia qualcosa di completamente diverso rispetto ad altre scritture di semicolti, nulla toglie all’importanza del dattiloscritto che rimane, nella sua versione originale, una delle più ampie, se non la più ampia testimonianza, di italiano popolare di Sicilia in cui trova lo spazio di dispiegarsi la creatività linguistica dell’autore. In tal senso, è indubbio che la lingua di Rabito, quella del dattiloscritto originale, sia qualcosa di profondamente diverso rispetto al “camillerese”, in quanto è una lingua genuina, vera, che nasce sotto la spinta dell’esigenza narrativa, e non un codice linguistico costruito a tavolino seppur ammantato da reminiscenze dialettali proprio dell’idioletto dell’autore.
In tal senso è perfettamente condivisibile quanto dichiarato da Santangelo nella già citata intervista rilascita a Tano Gullo: “Parole siciliane e italiane, talora trasfigurate, per raccontarsi. Non c’è nulla di artificioso, ma solo la necessità di trovare un modo espressivo per rievocare i fatti vissuti. Ne scaturisce un vigore che né la lingua comune né il siciliano letterario e cinematografico utilizzati finora possiedono appieno”. Un po’ meno condivisibile è che si tratti di “una lingua originale, che non somiglia a nessuna altra sperimentata prima” visti i forti punti di contatti con le altre scritture di semicolti che una puntuale analisi linguistica del testo permette di scorgere.
3. Un confronto tra il dattiloscritto e l’edizione a stampa
Infine, se passiamo ad affrontare l’ultima delle questioni che ci eravamo proposte, ossia quanto della lingua di Rabito rimane nella versione èdita, un confronto tra il dattiloscritto e le pagine di Terra matta, soprattutto alla luce della breve, forse troppo, nota introduttiva dei curatori, permette di fare alcune considerazioni.
In primo luogo, i curatori affermano di aver voluto “a ogni costo rispettare le scelte linguistiche dell’autore, conservandone quasi integralmente la peculiare grammatica” e che “i principali interventi si sono concentrati sull’ortografia e sulla punteggiatura” che è stata regolarizzata al fine di rendere il testo più leggibile.
Ovviamente sarebbe stato impossibile pubblicare il dattiloscritto senza intervenire sull’uso della punteggiatura, dato che la selva dell’interpunzione avrebbe annichilito anche il lettore dotato delle migliori intenzioni, ma perché inserire anche tutti quei segni paragrafematici che indubbiamente rendono più “scritta” la pagina e la cui assenza in fondo non compromette la comprensione del testo?
Analogamente forse sarebbero potuti essere più limitati gli interventi di “ricostruzione delle unità lessicali che si presentavano graficamente scomposte” e di separazione dei lessemi univerbati che caratterizzano in modo peculiare le scritture dei semicolti.
Relativamente al livello sintattico e testuale, in linea di massima, viene rispettata la sintassi marcata delle frasi che riproduce l’oralità di fondo del testo e dunque non viene alterata la fisionomia complessiva della testualità eccetto che per la suddivisione in capitoli, paragrafi e capoversi.
Per quanto riguarda il livello lessicale, le note esplicative risultano fondamentali per la comprensione presso il vasto pubblico dei dialettismi che forse sarebbero potuti essere meglio contestualizzati e inseriti in un glossario finale di cui il testo risulta mancante e che avrebbe arricchito indubbiamente il volume, analogamente a quanto avvenuto per l’altro testo di memorialistica popolare pubblicato sempre presso l’editore Einaudi, La Spartenza di Bordonaro, in cui l’attenzione per la lingua risulta essere più spiccata grazie al prezioso glossario di Gianfranco Folena. Grazie alla presenza di un glossario, o di note più articolate, si sarebbero potuti evitare anche generici accorpamenti di dialettismi e malapropismi e si sarebbe potuto far emergere meglio quella creatività lessicale che nasce dal bisogno dell’autore di colmare vuoti oggettivi, termini siciliani intraducibili, e soggettivi, lessemi sconosciuti per l’autore e ricostruiti sulla base di parole ad esse consimili ma non inventate.
Come afferma Antonelli (2007) nella già citata recensione: “Normalizzate la punteggiatura e le maiuscole, introdotti accenti e apostrofi, ripristinata la corretta separazione delle parole (ma non sempre: a tacare, uncazzo); restaurate sintassi e testualità, ricorrendo a integrazioni in corsivo che a volte si presentano come didascalie (“io pareva che non era io, da come stavo in silenzio”); dimezzata la lunghezza, non solo eliminando in blocco alcuni episodi, ma anche sforbiciando qua e là per rendere più scorrevole il racconto. Il testo dato alle stampe è l’esito di sei anni di faticosa postproduzione: quel “laboratorio Rabito” che ha trasformato il grezzo dattiloscritto Fontanazza nel romanzo Terra matta attraverso un lavoro di rabdomantica divinatio (“in questo modo si rischia di essere un po’ medium”, ammette Ricci).
Di là dalla lente deformante dell’editing, il “rabitese” (“lingua originale, che non somiglia a nessun’altra sperimentata prima”, Santangelo) non è altro che una delle tante declinazioni dell’italiano popolare. Con tutte le ambiguità e le sfocature che la definizione porta con sé, e con la stessa “fortissima diffrazione in senso dialettale” che Mengaldo riconosceva nella Spartenza del siciliano Bordonaro, premio Pieve 1990 e poi volume Einaudi con prefazione di Natalia Ginzburg e glossario di Gianfranco Folena.
Per andare incontro alla leggibilità, viene alterato a più livelli lo specifico della scrittura semicolta, che è proprio la tendenza a trasferire di peso sulla pagina i tratti tipici del parlato. Capitoli, capoversi, periodi – ad esempio – sono tutte divisioni posticce; anche se il flusso continuo del testo è stato agevolmente segmentato facendo leva soprattutto sul connettivo così, che già nella versione originale cadenzava il ritmo secondo lasse di lunghezza variabile.”
In tal senso, per comprendere la distanza tra la lingua usata nel dattiloscritto e quella della versione èdita può essere emblematico il cambiamento del titolo: dal toponimo usato dall’autore nel suo diario che sottolinea la familiarità dei luoghi, pur nella genuinità dell’indicazione, alla denominazione della provenienza dei soldati siciliani, usata quasi come ’nciuria, dai commilitoni sul Piave e dalle popolazioni locali “siciliani terramatta”, insomma la differenza tra una lingua vissuta e quella reinterpretata da altri.
In conclusione, se l’edizione dell’Einaudi permette indubbiamente di poter far conoscere e apprezzare il narratore Rabito e la forza dirompente del suo racconto, l’asprezza della sua scrittura – secondo la definizione della giuria del Premio – risulta un po’ troppo addomesticata e il capolavoro di Rabito non diviene solo “delizia dei linguisti”, come si auspicava, ma “croce e delizia” per tutto ciò che, forse inevitabilmente, ha comportato il lavoro di post-produzione.
Note
1 Intervista rilasciata da Giovanni Rabito al “Giornale di Sicilia” del 17 Settembre 2000.
2 Circa la poca nettezza di timbro che caratterizza la i pretonica e la u si rimanda a Tropea (1976) e Mocciaro (1991).
3 In proposito si rimanda a quanto osservato da Mengaldo (1994: 299) per il testo La spartenza di Tommaso Bordonaro.
4 Per la rilevanza del fenomeno nell’italiano regionale popolare di Sicilia si rimanda a Tropea (1976) e Leone (1982).